GLI ETRUSCHI CI PARLANO

 

Gli Etruschi, popolo antichissimo e civilissimo, ci parlano e per fare questo hanno usato metodi diversificati, a seconda dell’epoca, e delle circostanze ambientali. Gli Etruschi Villanoviani ci hanno parlato con la simbologia, la quale attraverso simboli come l’uovo, il sole, la luna, le stelle, la cosiddetta “svastica”, ecc., ci hanno detto moltissime cose e al contrario del linguaggio, questi si conservno immutati attraverso i millenni. Infatti le lingue cambiano e, spesse volte, cambiano così in fretta da essere costretti a cambiare i nostri vocabolari o ad aggiornarli in tempi brevissimi. Gli Etruschi del VII sec. A.C. ci hanno ‘parlato’ con la scrittura. Le prime forme, arcaiche, sono distinguibili da quelle più recenti per diversi motivi, uno fra questi è la forma dell’alfabeto variabile nel tempo e in stretta connessione con la lingua parlata in un detrminato momento e luogo. Un’altra forma di comunicazione si è rivelata quella degli affreschi, che si sono appalesati come una vera miniera di informazioni. C’è da dire: “Grazie Etruschi, le vostre scene dipinte ci hanno permesso di conoscere un po’ della vostra vita” (anche se tanto ancora c’è da capire),

 

Per renderci conto di quanto sia difficile capire gli Etruschi potrei fare un  esempio convincente, anche se mi auguro con tutto il cuore che ciò non avvenga mai. Ammettiamo (qui lo dico, qui lo scongiuro) che sulla terra incomba una disastrosa nuova guerra mondiale nucleare. Tutto ciò che si trova sulla terra diventa distruzione, macerie, e, ammettiamo che si salvino solo una sparuta schiera di uomini, donne e bambini. A causa di questo sfacelo la civiltà verrebbe cancellata. Gli uomini superstiti sarebbero costretti a ricominciare tutto la capo: niente tecnologia, niente fonti scritte, insomma niente che apparteneva alla civiltà distrutta. Ammettiamo poi che trascorrano un paio di millenni, e che tutto venga ricoperto da uno strato di terreno, alto cinque, sei metri. Supponiamo infine che verso il 4000 d.C. qui in Toscana avvengano eclatanti scoperte archeologiche, ad esempio che venga titrovato il sito della necropoli di Firenze, Trespiano per interderci. Gli archeologi del 4000 d.C. scoprirebbero migliaia e migliaia di croci, di Cristi lacerati, di Madonne piangenti, di Angeli, di Santi, con scritte più o meno varie, dalle più semplici alle più complesse: “Qui giace Tizio”, “Qui riposa in pace Caio”, ecc. fino alle forme di epigrafia più complesse, ma sempre riferite all’ambito cimiteriale.

 

 Ipotizziamo, ma certamente non sarà così, che la religione cattolica venga del tutto dimenticata a causa dell’ecatombe. Gli archeologi futuri potrebbero far risalire tali figure, sicuramente alla religione degli abitanti vissuti nel XXI secolo, ma si dovrebbero chiedere qual’era per essi il significato della Croce, dell’Uomo in croce, della Donna che piange sul corpo morente di Cristo, degli angeli, della miriade di Santi, Pietro, Paolo, Francesco, Padre Pio, ecc. ecc. Ripeto, si tratta solamente di una ipotesi, che io, non solo mi sento di escludere, ma essendo credente mi vengono in mente le parole di Cristo: “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno mai”. I futuri archeologi del quarantesimo secolo analizzando i reperti della nostra civiltà potrebbero pensare tantissime cose, alle più svariate,  e, difficilmente riuscirebbero a capire la storia dell’Uomo crocifisso (che per noi cristiani è Dio). Ancora più difficlmente riuscirebbero a capire la simbologia cristiana: il sole sul calice, le colombe, i nimbi, le aureole, i vari simboli come IHS,  e tutti gli altri simboli eucaristici. Difficile sarebbe per essi capire il perché di tante figure raccapriccianti, di uomini ai quali viene mozzata la testa, di donne alle quali vengono strappati i seni, a giovani legati alle colonne e uccisi con le frecce, a uomini che vengono arrostiti sulle gratelle (toscano per ‘graticola’), ecc. Sicuramente l’idea che si formerebbero questi archeologi del futuro sarebbe quella che la società nostra, odierna, era una società barbarica, sanguinaria e cattiva (e non avrebbero tutti i torti!). Se poi andassero a analizzare le scritte, i linguisti del futuro farebbero mille supposizioni, la prima riguarderebbe senz’altro la loro origine: “Da dove provenivano gli Italiani”. E giù sopposizioni su supposizioni. Gli italiani venivano dagli Stati Uniti, poiché, ammenniamo, vengano ritrovati  dei pezzi di jeans, uguali a quelli che portavano gli americani. Altri potrebbero dire: gli italiani provenivano dalla Romania, poiché sono state trovate molte tombe con nomi simili o uguali a quelli ritrovati nel territorio rumeno. Sicuramente gli archeologi riuscirebbero a fatica a capire il perché tante donne rumene sono qui in Italia a fare le “badanti”.

 

Altri potrebbero dire, per le stesse ragioni, che gli Italiani provenivano dall’Albania, dalla Tunisia, dal Senegal e chi più ce n’ha più ne metta. Allora alcuni futuri archeologi potrebbero obbiettare: “Sicuramente gli Italiani erano una Federazione di popoli, di razze, di etnie diverse, come a suo tempo lo erano stati gli Etruschi?” E poi la lingua, gli Italiani parlavano una lingua propria oppure imparentata con altre, ad esempio con l’inglese: vedi ‘OK’, vedi ‘bye bye’, vedi ‘joke-box’, ecc. Altri potrebbero pensare che la lingua italiana derivasse dal francese, vedi ‘cheri’, ‘non-chalance’, ‘merci’, ecc. Vedete in che razza di confusione si troverebbero invischiati i nostri eroici archeologi del sec. quarantesimo? E poi, le cappelle di famiglia, ritrovate semi distrutte, ma ancora “leggibili”, sotto il punto di vista architettonico, mi immagino che i “futurarcheologi” direbbero: “Le case degli italiani erano piccole, formate da un solo ambiente, con il tetto a capanna ricperto di tegole o lastre di rame e con i muri ricoperti di marmi pregiati e suppellettili varie”. Questo per i ricchi, i poveri invece, non potendosi permettere la tomba signorile, venivano seppelliti in fosse di circa due metri di profondità.

Vedete quanto sarebbe difficile ricostruire dopo duemila anni il tipo di vita, la religione, larte, il lavoro, l’architettura e le conquiste scientifiche degli italiani, se questa  nostra società venisse cancellata dalla storia dell’umanità. Se i futuri archeologi non venissero in possesso di un ‘vocabolario’ della lingua italiana, si troverebbero nelle stesse difficoltà che ci troviamo oggi con la civiltà etrusca. Ma torniamo al tema di come gli Etruschi ‘comunicano’ con la nostra società attuale.

 

Nonostante i molteplici modi di forme di ‘comunicazione’ mi è parso giusto analizzare ciò che i nostri avi Etruschi ci tramandano con la scrittura. Noi possediamo migliaia di epigrafi, pochissime di queste sono arcaiche e semplicissime nei loro concetti, ad esempio: “Mi Mamarce Asklaie” (Io sono Marco di Ascoli, oppure io sono il donatore Marco di Ascoli); ancora: “Mi culixna Velthura Venelus” (io sono la coppetta di Venel Volturio).

 

Queste due iscrizioni, rinvenute a Capua (Campania) nel V sec. A.C. sono due frasi semplici, che da un lato vogliono affermare la proprietà delle cose a certe persone, e di conseguenza vengono ammoniti i contemporanei etruschi che esse non vanno toccate da nessuno e tantomeno rubate; dall’altro lato, implicitamente, si riconosce che tali tombe appartengono a Tizio o a Caio. Sempre rimanendo nello stesso periodo riporto una iscrizione trovata in Campania a Suessula, e questa dice: “Mi xulixna cupes althnas ei minipi capi mini thanu”. L’iscrizione è appena un po’ più complessa delle altre, ma niente di trascendentale: “io (sono) la coppetta di Cupio della città si Alatri, non mi prendere”. Perché gli etruschi avevano così timore che un oggetto, se vogliamo di poco valore (per allora), venisse trafugato dalle tombe dei loro cari? E’ probabile che gli oggetti lasciati nelle tombe del defunto fossero una specie di offerta da regalare al ‘traghettatore’ Charun, affinché questo conducesse l’anima del defunto senza pericoli nel regno dell’Ade, cioè nel regno dei morti. Il concetto di “aldilà” differiva molto dal nostro concetto cristiano.  Altre iscrizioni sono ancora più semplici, ad esempio questa: “Tula Tetula Surate” rinvenuta a Capena (Lazio) e significa: “io sono Tullio della città di Sorano”. Pochi discorsi, ma buoni. Osservate come sono semplici: nome cognome e provenienza, una specie di carta d’identità in formato ridotto (chissà che il cimitero non funzionasse come un’arcaica Anagrafe del tempo?).  Un’altra epigrafe dal contenuto un po’ curioso: “Mi Squrias Thina mlax mlakas”. Certo, di primo acchito, la frase sembra incomprensibile, ma se facciamo un po’ di attenzione notiamo che “Mi” equivale a “io sono” (opp. “Mi ma” - io sono), il verbo quindi, in questo caso è sottinteso. Per “squrias” ci viene in aiuto in latino con  “scurra”  che significa: fannullone, buffone, adulatore, parassita. Tuttavia l’origine di questo nome di persona sembra etrusco. Da qui deriverebbero gli aggettivi italiani “scurrile”, che ha significato di osceno, maleducato, ecc, “thina” potrebbe significare “olla”, parola da cui deriverebbe anche l’italiano “tino” e il nome di persona Tino-a. Dunque: “io sono la olla di Scurreia che scioglie un voto”. Gli Etruschi erano molto religiosi (ciò non toglie che ci fossero anche degli atei!) e la loro religione spesso e volentieri si tramutava in superstizione: guai seri sarebbero accaduti all’eventuale ladro della ‘olla’ (pentolina) di Scurreia. Ancora una epigrafe facile da comprendere: “Mi mulvanice Mamarce Velxanas”, semplicemente mi ha donato (mulvanice), Marco (Mamarce), Velxanas (di Vulci o vulcente). Ora esaminiamo due epigrafi, facili, facili da Tarquinia ed esattamente dalla Tomba Bruschi, forse una delle tombe che abbiamo recentemente visitato con i soci di Archeoclub Mugello. “Ati nacna Velus”. Ati significa madre e “nacna” significa “grande”, dunque le due parole messe insieme significano “grande madre” ovvero grand-mère (Nonna in francese) e Grossmutter (nonna in tedesco). Siccome la tomba è recente e risale al II sec. a.C., è probile che questa parola derivi dalla lingua celtica. I celti infatti invasero l’Italia settemtrionale verso il VI-V secolo a.C. Testimonianze molto interessanti della cultura celtica, appena fuori la Toscana, le troviamo a Monerenzio, appena scollinato il Passo della Raticosa, in provincia di Bologna. L’altra iscrizione è formulata così: “Papa  Velus”, dove “papa” non sta per papà (né per pappa), ma per nonno. E il nostro “babbo”? Da dove deriva? Si tratta forse di una voce onomatopeica? Potrebbe esserlo: il bambino piccolo quando riesce a pronunciare le prime sillabe dice: “ba-ba” e da qui ad arrivare a “babbo” il commino mi sembra breve.

 

L’altra epigrafe interessante proviene ancora da Tarquinia: “Mi ma Mamarce Spuriiazas”. La traduzione è la seguente “Io sono Marco Spurillio”. C’è da notare qui che “spurio” ha anche il significato di “illegittimo, bastardo, adulterino”, oppure “spur”, in etrusco significa “città”. Perche queste somiglianze? Non mi sentirei certo di confermare che “spuriazas” significhi “figlio naturale”, poiché mi mancano gli elementi per dimostrarlo, sarei più propenso a tradurre tale parola con “abitante di questa città”.  Aucora, “Eca mutana Cutus Velus”, iscrizione in una trave di tufo, rinvenuta a Tarquinia nel II sec. a.C. significa: “Questa è la tomba di Vel C….” Su un’altra iscrizione, rinvenuta a Tarquinia in un cippo funerario del II-III sec. a.C troviamo scritto:   “Lucer Latherna svalce avil XXVI”. “Lucer” deriva molto probabilmente da “luce” e quindi “Locer” potrebbe significare “Luciano”. Questo Luciano è vissuto (svalce), “avil” (fino a, anni), XXVI (ventisei). Mi sembra che questo giovane sia vissuto troppo poco anche per quei tempi, in cui le guerre, le malattie, le pestilenze, ecc. erano pane di tutti i giorni.

Abbiamo imparato dagli stessi Etruschi, alcuni nomi propri, alcune forme verbali semplicissime come ad esempio “mi ma”, o semplicemente “mi”, che significa “io sono”; poi abbiamo conosciuto come questo popolo chiamava  la mamma, il ‘babbo’, la nonna, il nonno, ecc. E’ solo una piccolissima parte di ciò che potremo scoprire analizzando le singole iscrizioni rinvenute nelle necropoli etrusche.

 

Paolo Campidori

©Paolo Campidori